Andrea Rolando

Andrea Rolando

Docente Dipartimento Architettura e Studi Urbani Politecnico di Milano

INTERVENTO

Al Biellese occorre pensare ad un vero PIANO STRATEGICO

a domanda che pone Giovanni Orso è complessa. Sarebbe stato bello essere in tanti intorno ad un tavolo e raccogliere i contributi di tutti per tentare di rispondere. Il tema è effettivamente molto difficile. Non vorrei occupare il campo del professor Salvemini addentrandomi nell’economia, ma sappiamo da Marx e Schumpeter, ripresi da Philippe Aghion in un libro più recente, che qualsiasi processo dello sviluppo deve affrontare una fase di «distruzione creatrice». Quindi, per rispondere, credo che, per creare dei processi di rigenerazione durevoli, dobbiamo anche accettare che ci siano dei momenti di cambiamento che siano disruptive, e mi scuso se uso una parola inglese, ma la parola italiana dirompente mi sembra meno efficace. In sintesi, occorre attivare delle procedure che cambiano radicalmente il nostro punto di vista.
Per questo, vorrei ragionare partendo dalla geografia e dalle componenti essenziali del paesaggio del Biellese. Trovo molto interessante l’intervento di Francesca Chiorino, che ha spiegato come il Premio voluto da Federico Maggia, ingegnere e architetto biellese, nell’ultima edizione abbia sostanzialmente lavorato sulle componenti strutturali del paesaggio: l’acqua, la pietra, il legno per citarne soltanto tre, cercando di portarle, di tradurle, di metterle come si dice «a terra» nello spazio fisico del territorio biellese. Lungo l’asse del fiume Cervo sono stati perciò individuati alcuni luoghi dove gli interventi, per quanto molto piccoli, potessero avere però l’effetto dell’agopuntura: quello cioè di toccare con precisione un punto specifico, facendo in modo che questa azione potesse riverberare in una dimensione molto maggiore.
In questo senso, vedere il Biellese con uno sguardo stretto, limitato all’interno dei suoi confini amministrativi, per chi si occupa di urbanistica è un errore. Per questo mi permetto di fare una piccola critica alla bellissima presentazione dell’ingegner Ermanno Rondi: avere scelto per il Biellese, un’immagine limitata al solo territorio della provincia. Non possiamo pensare al Biellese chiuso nei suoi confini. Anche il Ministro Gilberto Pichetto Fratin ha sottolineato l’importanza della natura e dell’acqua come una delle componenti più importanti.

In effetti, l’acqua non rispetta i confini: come abbiamo imparato molto bene nel caso degli eventi come quelli dell’alluvione, non sempre sta dentro l’alveo del fiume, e quando è necessario li supera. E lo stesso fanno i flussi delle comunicazioni e della conoscenza, che sono alla base delle relazioni tra territori, che non tengono conto di quelli che sono i confini amministrativi.

Il primo punto che vorrei sviluppare è allora quello che Marziano Magliola ha sollecitato nel suo intervento: quella del Biellese come il cuore del Central Park tra Torino e Milano. Un’idea sulla quale lavoriamo da tempo al Politecnico di Milano. Vivo a Torino, dove mi sono laureato in ingegneria, ma insegno a Milano da 26 anni e molte delle mie attività le ho in effetti portate avanti «tra» le due città, anche nell’ambito dell’Alta Scuola dei due Politecnici, che sviluppa in sinergia progetti di ricerca e di didattica innovativa. Quindi, la dimensione torino-milanese l’ho sempre sentita e l’ho ritenuta come un elemento importante e cruciale. Il disegno che uso per accompagnare le mie parole descrive il territorio tra le Alpi e il Po fa vedere quelli che, dal mio punto di vista, sono i riferimenti geografici principali del Biellese: per questo, non limita lo sguardo al suo interno, ma cerca di estenderlo ad un contesto allargato a ciò che lo circonda. Il Biellese è un luogo che sta a sud delle Alpi, non c’è dubbio, ma che ha relazioni anche con il Monte Bianco, il Monte Rosa, i laghi, che sono eccellenze riconosciute a livello planetario. E’ compreso tra la Dora Baltea, la Sesia e il Ticino, ma si trova anche sopra al Po, il principale fiume italiano e vicino alle colline dell’Unesco, oltre che tra due città importanti come Torino e Milano. In un territorio che, storicamente, è straordinariamente centrale. Lo chiamiamo Central Park, come è centrale quello di New York, una vera e propria finestra di natura (anche se creata dall’uomo) all’interno di un luogo estremamente antropizzato come l’isola di Manhattan. Vediamo perciò i territori intermedi tra le due principali città del Nord Italia in questa prospettiva, dove la qualità della vita è alta, gli spazi aperti e verdi sono molti e ancora lontani e distinti rispetto alla densità dei centri principali.

Tra l’altro, dobbiamo considerare che questo spazio verde è attraversato da importanti vie storiche come le due Francigene: una che scende dal passo del Gran San Bernardo, l’altra che arriva dalla Valle di Susa e che confluiscono su Vercelli. Queste coesistono con le due direttrici indicate in rosso nel disegno, che sono i 2 corridoi europei delle reti di connessione TEN (Trans European Network): il corridoio numero 24, che va da Rotterdam a Genova, e quello numero 5, che va da Lisbona a Kiev. Non a caso, all’incrocio tra i due si è consolidato nel tempo un luogo particolare: il nodo della logistica di Vicolungo, tra Vercelli e Novara. Una centralità, già determinata dalla storia e confermato nella situazione attuale, che ha una rilevanza europea e globale. Ed è questa una consapevolezza che, a mio avviso, dobbiamo cercare di tenere presente e valorizzare. E in questa dimensione che dobbiamo pensare al Biellese, inserendolo all’interno di uno spazio, che è di circa 130 per 80 km, cioè 10.000 km². Un dimensione molto grande, che è la stessa del parco di Yellowstone negli Stati Uniti. Un’idea, come dicevamo un po’ disruptive, dirompente, provocatoria, forse nemmeno basata su fatti concreti. Però è di questa dimensione che vorrei parlare, cioè di quella che ci consente di rompere i confini, di vedere il Biellese da fuori, con uno sguardo innovativo. Una visione che, per altro, è già presente nella tradizione diciamo storica, culturale, scientifica, nel DNA dei Biellesi, evidente se pensiamo a due parole chiave: esplorazione ed esportazione. Due cose che i Biellesi sanno fare benissimo, basti pensare alla storia dei De Agostini, Piacenza, Sella; così come ci insegna tutta la vicenda della Valle del Cervo, da dove sono partiti operai e impresari che hanno costruito pezzi di infrastrutture in giro per il mondo, dal Sud America alla Cina, dall’Africa al Nord Europa. Competenze che si sono nel tempo consolidate, rendendosi visibili concretamente, lasciando tracce non solo culturali ma anche fisiche nel nostro territorio. E questi caratteri per così dire strutturali del Biellese, ci consentono di tornare alle questioni dell’attrattività, dei talenti, che devono essere visti e reinterpretati in questa chiave: di eccellenza. Per queste ragioni il Premio Maggia è importante: perché parte dagli elementi caratteristici, interni al territorio, ma coinvolgendo giovani talenti che vengono da fuori, selezionati attraverso una procedura aperta e che portano, dall’esterno, nuove interpretazioni che ci fanno vedere un territorio che pure conosciamo molto bene con occhi nuovi. Questo modo di fare mi sembra molto utile, ed è importante continuare a lavorare, anche nel piccolo, in questa direzione.
Come ingegnere e urbanista, cerco di dare forma alle cose in una dimensione territoriale, ma considerando come basilare la presenza e il ruolo degli uomini che quei territori li abitano. Tra l’altro il Biellese è vicino ad una delle vicende in questo senso più interessanti della storia industriale non solo italiana: Ivrea. In questo campo Adriano Olivetti, ingegnere, si è occupato come sappiamo bene di questioni cruciali che ancora oggi sono all’avanguardia. Tra l’altro, fondando l’Istituto Nazionale di Urbanistica. Scrivendo un libro che si intitola, non a caso la Città dell’Uomo, ha messo l’uomo al centro dello spazio del territorio. E questo atteggiamento è evidente se pensiamo alle realizzazioni per Ivrea. Progetti di rilevanza globale, tanto che si rivolgeva, tra gli altri, persino a le Corbusier, per progettare le sue fabbriche e aveva ben chiara l’idea che anche un luogo piccolo potesse riverberare in una dimensione ben maggiore. Se assumiamo questa prospettiva, di certo ambiziosa, vediamo come l’idea del Central Park in realtà si possa appoggiare su esperienze e su «strutture» territoriali, materiali e immateriali, ma concrete. Per questo metteremo in evidenza almeno due luoghi.

Il primo è stato già nominato da Francesca Chiorino, parlando del premio Maggia e di come abbia considerato lo spazio del fiume Cervo come una risorsa che si può davvero considerare come un’occasione strepitosa per il territorio. Un tema che meriterebbe di essere sviluppato, da «mettere a terra» come si dice per passare dalle parole alle cose, partendo dal Lago della Vecchia fino a Quinto Vercellese, dove confluisce nella Sesia. Considerando tutto quello che esiste lungo questo percorso: dall’alta valle, con la presenza della natura, la pietra, l’acqua, passando per la parte intermedia con le fabbriche, a Miagliano, ad Andorno, a Sagliano, attraverso la parte più urbana con i lanifici e le altre fabbriche, che possono davvero diventare un nuovo modello di parco urbano, che avrebbe credo pochi eguali, non solo in Italia.

Questa idea potrebbe essere ancora sviluppata da Biella fino al ricetto di Candelo, dove il paesaggio è più complesso, tra fabbriche, infrastrutture, agricoltura, ma che costituisce un’importante opportunità, magari considerando che potrebbe essere possibile andare a piedi da Biella, dal ponte di Chiavazza fino al Ricetto di Candelo. In parte questo è già possibile, in parte no. Alcune parti sono molto belle e tengono insieme un paesaggio produttivo, quello della fabbrica e dell’agricoltura, e quello della natura, con gli elementi fondamentali dell’acqua, dell’aria e della terra.

E oltre la Baraggia, Cossato e Castellengo, fino alla pianura delle cascine tra Carisio e Vercelli, cercando una relazione simmetrica tra il Monte e il Piano. Tenendo magari presente che una cascina del riso può avere relazioni con i vigneti nella fascia lungo le colline tra Biella, Vigliano, Valdengo fino a Lessona. Cercando di valorizzare il rapporto tra acqua e terra, ad esempio tra riso e vino, promuovendo attività imprenditoriali che interpretino in modo nuovo le risorse naturali e i caratteri produttivi del paesaggio Biellese.

Oltre al fiume Cervo, che dai monti va alla pianura, un altro luogo, una struttura territoriale davvero rilevante è quella della strada che attraversa tutto il territorio e collega la valle della Dora Baltea con quella della Sesia, da Ivrea e Andrate a Trivero e Borgosesia, passando per La Trappa, Oropa, San Giovanni, Rosazza, Bielmonte. Come sappiamo è attraversato da una magnifico percorso panoramico, un vero e proprio balcone affacciato sulla montagna e sulla pianura, che è stata concepita come un luogo capace di integrare gli spazi e i tempi del lavoro con quelli del tempo libero. Questo è sicuramente un secondo tema straordinario sul quale merita lavorare, perché è una strada che interessa tutto il biellese e che connette, tenendoli insieme visivamente e fisicamente, molti dei suoi luoghi più belli ed attraenti.

I due sistemi, del fiume Cervo e della strada che unisce Andrate a Trivero, quasi ortogonali tra di loro, possono davvero costituire il cardo e il decumano del futuro del Biellese.

Un altro tema rilevante è quello delle connessioni e della mobilità. In altri interventi sono indicati due assi delle infrastrutture di collegamento stradale e ferroviario: verso Santhià e verso Carisio. L’aspetto che mi sembra fondamentale considerare è quello della qualità di queste connessioni.

Sono convinto che le strade e le ferrovie non debbano essere viste soltanto come elemento fisico di spostamento delle persone, ai flussi delle merci (ormai non più tante, almeno per la produzione industriale), ma soprattutto come elementi che si integrano nel paesaggio, luoghi di eccellenza e magari positivi per l’esperienza del viaggio in senso più ampio. Alcune strade sono meravigliose: arrivare da Carisio a Biella (passando ai piedi della Baraggia, per Mottalciata e Castellengo) è un’esperienza spettacolare. Quando ci sono le montagne imbiancate il paesaggio visto dal finestrino è davvero bello. Forse si potrebbe migliorare qualche dettaglio, qualche elemento di disordine e di disturbo ad esempio nella segnaletica e nella cura dei bordi… però resta un’esperienza sostanzialmente gradevole, così come è piacevole arrivare a Biella attraverso la direttrice da Santhià verso il Maghetto. Diverso è il caso della Trossi: un caso un po’ più complicato ma sul quale si può lavorare… In ogni caso, migliorare il rapporto tra infrastrutture e paesaggio mi sembra un aspetto cruciale, soprattutto per migliorare le relazioni con le due città principali di Torino e in particolare di Milano. Ad esempio tendo conto del fatto che abitare nel capoluogo Lombardo costa sempre più caro e per i giovani questo è un problema particolare. Alcuni recenti articoli della stampa, anche nazionale, hanno sollevato questo tema, insieme a quello, annoso, dei collegamenti ferroviari. Giustamente la Biella – Santhià – Novara viene considerata una di quelle più in difficoltà. Io sono convinto che nella sostanza possa già funzionare bene e che si debba soprattutto migliorare in termini di esercizio. Ad esempio è difficile accettare che, per la tratta da Santhià a Biella, anche dopo l’elettrificazione della linea, siano attivi solo due treni diretti, peraltro in orari scomodi e solo nei giorni lavorativi. Ma non voglio trasmettere un messaggio negativo. In treno a Biella si arriva benissimo, e se si adattano un poco le nostre abitudini, i tempi sono comunque concorrenziali con quelli dell’automobile. Inoltre, l’esperienza del viaggio, godendo del paesaggio visto dal finestrino, è molto bella. Pensando al viaggio come esperienza, merita citare una piccola guida del Touring Club Italiano, datata al 1905, che pubblicizzava la qualità turistica esperienziale del tracciato ferroviario da Torino a Arona. Com’è possibile che centovent’anni dopo questo aspetto non sia più considerato? Leggendo questo piccolo opuscolo sono elencati tutti le eccellenze del paesaggio che si incontrano lungo il tracciato: dalle risaie alla cupola di san Gaudenzio, dalla veduta del Monte Rosa al canale Cavour.

Alla fine di questo mio contributo, vorrei proporre alcune azioni concrete che forse si possono portare avanti. Innanzi tutto, pensando di fare tesoro e di trasformare una competenza fortissima sul territorio, che è quella della manifattura, ad un’idea diversa di produzione, passando dalla produzione di cose alla produzione di un paesaggio. Questo in particolare è un tema che non sappiamo ancora affrontare, da un punto di vista scientifico ma anche operativo. Sappiamo come costruire case, strade e città; sappiamo come mantenere e anche restaurare delle case, siamo capaci di restaurare borghi e città, così come sappiamo restituire a nuovi use una fabbrica. Il Lingotto o il parco Dora di Torino, la Bicocca a Milano sono esempi in questo senso. Tuttavia, non sappiamo intervenire su paesaggi più complessi, solo apparentemente meno importanti, come quelli del Biellese fatti di molte fabbriche diffuse in un territorio fragile. Una competenza che manca quasi del tutto, a livello di conoscenza e di ricerca scientifica, non solo di formazione, e quella che possa definire percorsi di ricerca e individuare luoghi di sperimentazione concreti. Sperimentare in modo concreto questi temi, considerando il Biellese come un territorio pilota, capace di diventare un modello e di dare indicazioni utili anche per altri contesti simili, presenti in tutta l’Italia. La Fondazione BIellezza in questo campo sta lavorando a mio avviso molto bene e i progetti fatti per la Trossi o per la strada panoramica tra Andrate e Trivero vanno in questa direzione. Merita farne un’occasione di ricerca scientifica, per sviluppare percorsi di studio e di formazione. Un corso di laurea nuovo, specifico e dedicato a questi temi, che vada oltre a quelli tradizionali, che saranno con ogni probabilità ancillari a quelli di Torino e di Milano.
Un corso di laurea che guardi oltre al patrimonio storico, al paesaggio e all’heritage, che pure dobbiamo e vogliamo valorizzare. Bisogna guardare al futuro, cercando di capire cosa si può fare concretamente per restaurare un paesaggio unico, come quello del Biellese. Davvero questa è una competenza disciplinare che dovrebbe essere sviluppata. Molti degli esperti presenti in questa sala e nel territorio potrebbero contribuire in questo senso.

In questa possibile strategia, la parola chiave è, ancora una volta, qualità: del paesaggio attraverso i progetti, in un’idea di restauro del paesaggio che non sia legata solo al riciclo e alla museificazione dell’esistente. Il concetto è quello, e mi scuso se usare ancora una parola in inglese che è quella di upcycle, per portare il paesaggio intero ad un livello superiore rispetto ad un semplice recycle. In questa ottica, ad esempio i lanifici Rivetti possono diventare il teatro di un’operazione di upcycle. Un concetto che è rappresentato molto bene dal caso dell’High Line di New York, un progetto che ha cambiato il modo di vedere un’infrastruttura della città, quella di una ferrovia sopraelevata, dismessa, che serviva per trasportare le merci. Oggi è stata trasformata, con interventi anche minimi ai quali hanno contribuito anche gli abitanti, ma in una logica di qualità architettonica e paesaggistica assoluta, in un parco urbano, che credo sia in testa tra gli elementi di attrazione turistica della città.

In conclusione, ancora un commento sulle azioni concerete.
Occorre pensare ad un piano strategico per il Biellese. Questa è un’azione che di certo non può essere il frutto dei ragionamenti che ho esposto, e nemmeno degli interventi, tutti estremamente interessanti emersi in questo convegno: deve essere l’esito di un processo, al quale deve contribuire tutta la comunità. Coinvolge molti attori, dura qualche anno e traguarda, se c’è un’idea condivisa, al territorio del Biellese tra vent’anni. Io credo che questa scommessa si possa avviare, che le risorse si possano trovare e che gli attori e i pensieri siano disponibili, mettendo intorno ad un tavolo le associazioni di categoria, le fondazioni, le Camere di Commercio, la politica, coinvolgendo gli abitanti e partendo dai più giovani. Il riconoscimento di Biella come città creativa da parte dell’UNESCO potrebbe essere l’occasione per attuare questo processo, considerando come proprio l’UNESCO solleciti progetti concreti per rendere vivo lo stesso riconoscimento e la visibilità del territorio in una dimensione globale. Per questo il territorio deve dilatare il proprio punto di vista creando un paesaggio rinnovato, che abbia di nuovo un valore globale, visibile dall’esterno attraverso progetti e iniziative di assoluta eccellenza. E le aziende, i marchi, le esperienze del Biellese, hanno già dimostrato di saper stare sulla scena globale, quindi non c’è ragione per cui anche i progetti non debbano avere questa ambizione. Il territorio esprime un’intelligenza collettiva, che costituisce una stratificazione che ormai fa parte del paesaggio, strepitosa, credo unica, che non penso di esagerare se definisco unica a livello internazionale. Questa stratificazione, questa intelligenza collettiva, questa capacità di innovare e al tempo stesso di saper fare, dando forma alle cose è una delle risorse, come dire, immateriali, che credo proprio il progetto di Unesco di Biella Città Creativa abbia riconosciuto e che dovrebbe essere ulteriormente portato avanti, attraverso una logica di upcycling. Su questo aspetto sono ottimista e spero di riuscire a trasmettere questa sensazione anche a voi. I problemi sono complessi e forse devono persino ancora essere individuati. Di certo non sappiamo ancora cosa e come fare. Ma i Politecnici e le Università sono presenti nel territorio, insieme ad altre importanti istituzioni e le occasioni di sperimentazione pratica non mancano. Una visione strategica e condivisa del futuro è per questo cruciale e molto possono fare la ricerca e la formazione: non soltanto per insegnare a risolvere problemi noti, magari anche per fare meglio ciò che già sappiamo fare, ma forse anche per esplorare e sperimentare percorsi nuovi e inattesi, che ci consentano di essere pronti ad affrontare sfide davvero nuove, con l’ambizione di imparare a fare bene ciò che non sappiamo ancora fare.

Andrea Rolando
Docente Dipartimento Architettura e Studi Urbani Politecnico di Milano